Peppina la fruttivendola
La chiamavano Peppina ''a ddessa'': strano nomignolo che non si è mai riusciti a comprendere. Aveva un misero negozio di frutta a buon mercato in un vano umido, sudicio e privo di pavimento. Era la fruttivendola degli scampoli: un pugno di semi e ceci un soldo; una tasca colma di castagne infornate, nocciole e prugne secche due soldi; un chilo di ciliege, pere fichi o altra frutta fresca tre soldi. Tutto assortito. I suoi clienti abituali erano per lo più ragazzi che sotto il suo naso le rubavano più di quanto acquistavano: nè tra questi mancavano i rapaci che, correndo per la strada e rasentando la sua bottega, ne mettevano a soqquadro la misera merce, parte carpendola a volo radente parte disseminandola per terra nella loro corsa. Cominciavano allora le imprecazioni disperate di Peppina ''a ddessa'', la vecchietta indifesa rimasta sola al mondo a lottare contro i monelli del quartiere che non le concedevano un attimo di riposo. Peppina si alzava di buon'ora per recarsi in campagna ad acquistare ''all'ingrosso'' due o tre ceste di frutta e verdura che più tardi avrebbe rivendute al dettaglio ai suoi acquirenti. Indi incominciava la vendita di tutti i giorni con l'afflusso, in quello stretto vano, dei soliti clienti (operai, donnicciole, bimbi), il litigare sul peso e sul cestino (era quella l'epoca dei centesimi, dei soldi, dei doppi soldi e, rara ricchezza, del nichel o quattrosoldi). Peppina si lasciava facilmente imbrogliare; bastava soltanto mostrarle la moneta perchè desse la merce ed il resto senza incassare quella: aveva di che rallegrarsi il disonesto acquirente nell'uscirne da quella misera frutteria con la spesa fatta e qualche soldo in più. Ma allorché la vecchia si accorgeva del suo errore, succedeva il finimondo: la si udiva sguaiare con epiteti volgari all'indirizzo dell'imbroglione che nel frattempo se l'era già squagliata. E'ovvio che l'esempio contagiasse i piccoli. Nei momenti di massima disperazione invocava la morte perché la liberasse da quel poco onesto pubblico che la faceva arrabbiare sfibrandola giorno per giorno. Non mancavano tra i visitatori di quella frutteria del buon Gesù donne senza scrupoli, pessime madri di famiglia, le quali, con la scusa di assaggiare questa o quella frutta da ''acquistare'', si rimpinzavano ben bene lo stomaco e poi se ne uscivano senza aver nulla acquistato dicendo che sarebbero ripassate più tardi per gli ''acquisti''. Eppure su quel misero commercio la vecchia ci campava alla men peggio anche se i soldini ch'ella raggranellava, il più delle volte, cadevano dal suo grembiule disperdendosi nel melmoso ed oscuro pavimento. Ma un giorno, un triste giorno, la porta della popolare frutteria di Peppina ''a ddessa'' non si riaprì! Ne doveva più riaprirsi se non per fare lo sfratto di un negozio che non aveva più ragione di esistere. Peppina era ammalata. Non curandosi affatto della sua avanzata età né delle sue precarie condizioni di salute, era uscita, con un tempaccio da fare spavento, per recarsi in campagna per i suoi acquisti ''all'ingrosso''. Un raffreddorone che più tardi risultò broncopolmonite costrinse la poveretta a mettersi a letto. Non doveva mai più rialzarsi: la morte, quella morte ch'ella tante volte aveva invocata come una liberazione, fu inesorabile e la trascinò nel suo vortice. Miseri furono i funerali: una rozza cassa di legno seguita da quattro o cinque persone, una benedizione frettolosa del prete e poi ...diritto al cimitero, tra l'indifferenza della gente. Così terminò la vita di Peppina ''a ddessa'', la vecchia fruttivendola sempre in lotta con i suoi clienti. E questi ultimi, pochi giorni dopo la sua morte, spalancarono le porte della bottega per vedere cosa ci fosse restato delle sue... ricchezze; lì, nella melma del vano furono rinvenuti tutti quei soldi, doppi soldi, nichel e persino qualche mezza lira, che, da quando era esistita quella rivendita di frutta, erano cascati a terra smarrendosi: erano gli stessi ragazzi che tante volte le avevano chiuso per scherzo le porte o le avevano rubato la frutta, a scavare nell'umido terreno in cui quelle monete erano seminate come un inesauribile tesoro. Il due novembre di quello stesso anno, giorno della commemorazione dei defunti, nel cimitero del paese una misera fossa, il cui unico addobbamento era costituito da una improvvisata croce di legno grezzo, veniva attorniata da uno stuolo di ragazzi recanti mozziconi di cera e dei fiori rubati su altre fosse: era l'estrema dimora di Peppina ''a ddessa'' per la quale i monelli riscattavano i loro scherzi passati con quel modesto commovente atto di riverenza. Se i grandi erano stati malvagi la loro pietà mai venne meno anche negli anni successivi nè mancò mai un fiore ed un cero su quella misera fossa. Fino a che il tempo non cancellò dalla memoria dei viventi anche quella pietosa usanza.
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